È seduta composta nell’atrio dell’ambulatorio. I capelli ricci neri raccolti in una coda bassa, la giacca blu, gli occhi scuri dietro agli occhiali, la borsa tenuta elegantemente sulle ginocchia.
Io arrivo trafelata, al mio solito. Incastro gli appuntamenti quasi al minuto, poi scappa pure il minuto perché vengo rapita dalla compagnia altrui, poi mi tocca salutare in fretta e attraversare la città correndo.
Prendo fiato, le chiedo a che ora ha l’appuntamento, mi guarda, sorride, cerca di formulare una frase ma capisco che fa fatica a trovare le parole, in italiano non le escono. Allora le parlo in inglese, allarga il sorriso e risponde. È dopo di me. Ma il medico è in ritardo, faccio a tempo ad andare a fare la pipì e rimettermi un po’ in ordine.
Aspettiamo. È preoccupata. Faccio un po’ di conversazione, le chiedo di dov’è. “Etiopia. Sono qui per studiare, ingegneria, tre anni. E tu?” “Avvocato”. È sorpresa. Forse è colpa del cappottino giallo. “Secondo te sa parlare in inglese il medico?” mi chiede ad un certo punto. “Mh, dipende molto dall’età. Se è anziano facile che non lo sappia parlare.” La vedo corrucciarsi. “Ma se hai bisogno posso aiutarti. Posso fare da traduttrice”. La fronte si distende, le pieghe delle preoccupazione si allentano.
La porta si apre, esce la paziente precedente e il medico chiama me. Entro, solite domande di rito: ha figli? No. Li vuole? Sì, li desidero. Ci sta provando? Eh, mi manca della materia prima buona.
Alza gli occhi dallo schermo. Mi invita ad accomodarmi per la visita. Le mie ovaie sono perfette, scopro di avere un utero che si sposta di qua e di là, ma è normale. Il mio seno è quello di una donna sana di trent’anni. Insomma, un sistema riproduttivo e dei genitali anatomicamente perfetti. “Bene”, dico rivestendomi. Poi, senza accorgermene e quasi sospirando, aggiungo “Però, che spreco!”.
Prima di uscire anticipo al dottore che la ragazza dopo di me parla solo in inglese. “Si fermi, se può, mi fa da interprete”. Volentieri.
Chiamo la ragazza, le spiego che il medico non parla inglese, che se per lei va bene posso restare. Mi faccio mille scrupoli. Sì insomma, siamo in questa stanza minuscola in cui ci si mette – letteralmente – a nudo. Due estranee. Lei è qui per un qualche problema che la preoccupa, le dico che se preferisce posso anche uscire e poi tornare. Mi sorride, sembra essersi alleggerita, mi fa posto a fianco a lei. In quel momento penso a quanto siamo simili, a quanto siamo vicine, in quella stanza. Due donne, sconosciute, che condividono una visita ginecologica. Quanta intimità, in così poco tempo. Mi spiega il problema, lo racconto al medico. È più giovane di me, ha già un figlio, parto cesareo. Facciamo un po’ fatica a capire l’anno in cui è nato “Noi abbiamo un altro calendario”, chiarisce. Il medico la visita, per pudore arretro dietro alla tenda e traduco a distanza. A un certo punto chiede allarmata se ha a che fare col cancro. Le dico no, tranquilla, non lo è. È una cosa che puoi risolvere con una mini chirurgia.
Mi confronto col medico, cerco di darle tutte le informazioni utili, vive qui da tre mesi, cosa ne sa di come funziona la sanità italiana. A malapena lo so io.
Usciamo insieme. Prima di salutarci ci presentiamo. Ci diamo un nome. Provo a mettermi per un attimo nelle sue scarpe: trovarsi in terra straniera, avere un progetto di studio che la terrà qui tre anni, un figlio a migliaia di chilometri di distanza.
Prima di allontanarsi se ne esce con un “Che giornata fortunata è questa. Avere incontrato te”.
A volte, basta davvero poco per sentire che il mondo è davvero tutto qui.
Bellissimo questo pezzo, molto vero, molto umano.
"Mi piace"Piace a 1 persona